Per mesi non siamo potuti uscire. Indossata la tuta, le donne hanno risparmiato su cosmetici, parrucchieri ed estetisti, gli uomini sul barbiere. Nessuno è andato al bar a consumare colazioni, aperitivi ed apericena. Niente palestre, cinema, teatri, discoteche, niente vacanze, niente vestiti nuovi. Auto in garage: niente benzina. Tutti abbiamo speso di meno, ed infatti i consumi sono calati drasticamente ed insieme ad essi la ricchezza nazionale, ossia il PIL. Di conseguenza lo Stato ha incassato meno tasse e l’INPS meno contributi sociali, indispensabili per pagare le pensioni e le altre prestazioni.
In cambio, molti cittadini hanno potuto accumulare un po’ di risparmi, specialmente quelli che hanno lavorato in smart working ed hanno risparmiato anche sui costi del trasferimento da casa al luogo di lavoro.
Poi, piano piano, c’ è stato il “libera tutti”. Le gabbie si sono aperte e come belve affamate siamo usciti di corsa a dare sfogo alle nostre umane pulsioni, come era prevedibile.
Li chiamano revenge spending, cioè acquisti di vendetta, di rivincita. Dopo mesi chiusi in casa abbiamo tutti sentito la necessità di vendicarci del torto subito, delle privazioni patite, delle ristrettezze, anche della voglia di vicinanza, di contatto, di fare shopping per dare sfogo alla nostra voglia di compensare le sofferenze inferte dal coronavirus. Lo shopping, si sa, è terapeutico perché aiuta a combattere lo stress. Lo sanno bene negli Stati Uniti dove alcuni supermercati hanno addirittura allestito dei corners che espongono prodotti a basso costo proprio per consentire ai clienti di liberare la loro voglia compulsiva, senza però spendere troppo, per evitare che allo stress da astinenza si sostituisse un inedito senso di colpa per aver depauperato le proprie finanze, peggiorando la situazione.
Quanto dureranno questi acquisti di vendetta? Poco ancora, anzi, ritengo stiano già scemando, perché le vendette sono stati emotivi che esauriscono la loro forza propulsiva una volta consumate. E noi abbiamo bene o male già consumato.
Ma ora la ricreazione è finita e ci attende la dura e drammatica realtà.
Una rondine non fa primavera, recita il proverbio. Molti si sono illusi nel vedere tanta gente in giro a fare compere, seduta al bar o al ristorante, spesso senza mascherine, nemmeno al chiuso, uno sull’altro, incuranti del contagio, tanto, hanno pensato, la nottata è passata. E invece non è passato un bel niente, anche perché le previsioni sanitarie non fanno ben sperare. Negli USA, in Brasile, in India, in Iran, i contagiati ed i morti salgono vertiginosamente. In Europa, Italia inclusa, la curva epidemica non scende, anzi, ricomincia a salire. Il vaccino, poi, ancora non c’è e quando ci sarà, se ci sarà, potrebbe non esserci per tutti: sempre ammesso che sia davvero efficace, e nemmeno questo sappiamo ancora.
Una volta esaurite le riserve accumulate durante il lockdown, presto torneremo tutti a riprendere i nostri ritmi, che non potranno che essere scanditi dal metronomo della incipiente povertà. L’economia è in ginocchio e lo Stato ha già sparato (male, a mio parere) quasi tutte le sue cartucce. L’Europa vorrebbe aiutarci, ma non si fida di noi e chiede garanzie, che in gergo politico si traducono in controlli che noi non intendiamo accettare per non perdere la nostra autonomia politica. E così l’incertezza sul futuro aumenta, spingendo le famiglie a tenere chiusi i cordoni della borsa della spesa, in attesa di tempi migliori. E intanto l’economia soffre.
Ed allora viene il sospetto che ci siamo vendicati troppo presto, che abbiamo festeggiato prima del tempo. Gli acquisti hanno dato un po’ di ottimismo, ma non debbono essere sopravvalutati.
Non si tratta di essere pessimisti, ma realisti. Il coronavirus non è come un uragano dal quale puoi difenderti standotene rintanato per qualche giorno in attesa che passi la paura e poi uscire, riparare i danni, versare qualche lacrima e riprendere a vivere sotto il sole e le stelle. Purtroppo no. Il coronavirus non lo conosci, non sai quando toglierà il disturbo, né quante vittime e danni economici lascerà sul campo prima che ci avrà detto addio.
Inutile illudersi, niente sarà più come prima. Il virus è destinato a cambiare i nostri stili di vita, il nostro lavoro, i nostri rapporti sociali, l’economia nazionale (e mondiale) e la stessa distribuzione della ricchezza. Molte aziende chiuderanno davvero, o saranno costrette a ridurre le loro attività. Ed allora esploderà la disoccupazione con conseguente riduzione delle entrate dello Stato, perché chi è disoccupato non guadagna e quindi non paga tasse, né versa contributi. Lo Stato sarà allora costretto a rivedere la propria politica economica perché presto cambieranno (se non sono in parte già cambiati) i paradigmi sociali su cui la nazione finora si è retta.
Sarà una rivoluzione sociale, politica ed economica senza precedenti.
Molti saranno chiamati a rivedere, se non addirittura a rinunciare, ai diritti acquisiti in periodi di vacche grasse, e non sarà facile fargli ingoiare il rospo. L’INPS dovrà separare la previdenza dall’assistenza, che oggi gestisce insieme, se vuole salvarsi ed evitare che le risorse destinate alle pensioni siano utilizzate per far fronte agli interventi assistenziali, come cassa integrazione e reddito di cittadinanza, tanto per citare i più importanti. Le pensioni devono essere garantite a chi ha lavorato una vita ed ha versato i contributi, se si vuole evitare la rivolta sociale. Non è problema di poco conto, così come non lo è la contrapposizione, che presto o tardi esploderà, tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, tra chi ha un lavoro sicuro e chi non ce l’ha, tra chi un lavoro ce l’aveva, magari precario, ed ora non ce l’ha più, né può sperare di trovarlo domani, visti i tempi e specialmente se non è più giovane.
Ci aspetta un autunno caldo, molto caldo (e un inverno molto freddo)
19 luglio 2020
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